Ci sono immagini che non si guardano soltanto: si sentono. Ti obbligano a fermarti, a respirare piano, a fare silenzio. Non raccontano semplicemente una storia. La portano addosso. La incidono negli occhi e nella pelle.
Il World Press Photo 2025 ci consegna, ancora una volta, una raccolta di verità crude, profonde, spesso scomode. Ma necessarie.
Tra le tante opere eccezionali premiate per la regione Europa, ce ne sono tre che, più di altre, mi hanno colpito nel profondo. Le ho scelte non perché siano le uniche meritevoli — tutt’altro — ma perché ognuna, a modo suo, ha lasciato un’impronta che non si cancella.
1. “Underground Field Hospital” – Nanna Heitmann, Magnum Photos per The New York Times.
Un ospedale da campo sotterraneo in Ucraina. Luci fredde, pareti scavate nella roccia, corpi stanchi, mani che si muovono veloci. Un uomo ferito, nudo, vulnerabile, disteso su una coperta tra le ombre di un rifugio di guerra.
Questa immagine non mostra solo la sofferenza. Mostra il coraggio di chi resta, di chi cura, di chi non si arrende. La vita che si aggrappa alla vita, anche quando tutto intorno è macerie.
E in quella scena, quasi teatrale eppure realissima, c’è tutta l’umanità possibile.
2. “Mika” – Prins de Vos, Queer Gallery.
Un ritratto frontale, semplice. Mika ci guarda. Il volto è sereno, lo sguardo diretto, il petto porta i segni recenti di un intervento chirurgico. Ogni cicatrice è una dichiarazione d’identità.
Non c’è dramma nello scatto, ma consapevolezza. La bellezza di questa fotografia sta nella sua sincerità: non spiega, non giustifica, non semplifica. Mostra una persona che ha scelto di essere se stessa. E questo, oggi, è ancora un atto rivoluzionario.
Un’immagine delicata e potentissima. Un invito al rispetto. Uno specchio di verità.
3. “Beyond the Trenches” – Florian Bachmeier.
Una bambina sdraiata su un letto sfatto, in una stanza spoglia. La luce che entra dalla finestra disegna un’atmosfera sospesa, quasi irreale.
Non c’è guerra visibile in questa foto, ma la guerra è ovunque: nei vestiti ammassati, nel silenzio delle pareti, negli occhi chiusi di chi forse finge di dormire per restare altrove.
È una delle immagini più potenti di questa edizione. Perché dice tutto senza dire nulla. Perché parla di infanzia, di assenza, di fragilità.
Queste tre fotografie ci ricordano cosa può fare davvero una fotografia: fermare il tempo, custodire un’emozione, raccontare l’invisibile.
E, soprattutto, ricordarci che guardare è un atto di responsabilità.
Quando un’immagine ci costringe a restare fermi, a sentire, a pensare, sta già cambiando qualcosa. E forse, in fondo, questo è il compito più nobile dell’arte: farci restare umani.
Worl Press Photo